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Why the Euro will be an imminent problem, if European politicians will not be quick to change its institutions

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La borsa fibrilla, ma il problema è nelle obbligazioni

Venerdì 17 si è chiusa una settimana agitata sui mercati finanziari. L’informazione sui dati negativi di Borsa ha largamente prevalso. Il Dow Jones ha segnato un minimo a 15.855. L’SP500 ha sfiorato 1.820 e in Europa l’FT100 ha ritracciato il 12 per cento dai massimi, il Dax il 17 per cento.

Tuttavia, le informazioni più importanti sono state trascurate o considerate passeggere. Si tratta quello che è accaduto sul mercato del credito (figura 1 – just click on it to enlarge). In pochi giorni il Bund benchmark ha marcato un nuovo massimo a oltre 150, lo spread con il Btp ha riguadagnato 200 punti base, l’oro, che era in fase calante, si è risollevato (l’oro non paga cedole, quindi in prospettiva di ritorno alla normalità dei tassi, si indebolisce). Questa volta però il Btp è stato seguito nella sua cattiva performance dall’OAT.

Figura 1 - Riassunto dei mercati obbligazionari nella crisi finanziari dell'ottobre 2014
Figura 1 – Riassunto dei mercati obbligazionari nella crisi finanziari dell’ottobre 2014

Potremmo tutto sommato considerare la vicenda come passeggera, e archiviarla, ma il punto è che a nostro avviso non lo è. Nella settimana, infatti, sono arrivati numerosi dati macro che confermano il rallentamento dell’eurozona, più marcato al sud che al nord. Del resto, il nostro indicatore congiunturale anticipava la flessione. Se l’economia dell’eurozona flette, i debiti pubblici tornano a far fibrillare i mercati.

 

L’ESM è solo un buffer fund

Per andare avanti, dobbiamo fare un passo indietro. Dopo l’ultima crisi (del 2012) sono stati compiuti due progressi. E’ stata fondata l’Unione Bancaria e L’Unione europea si è dotata di un Fondo salva-Stati (ESM), capace di 700 miliardi di euro.

Ma l’ESM in realtà non altro che una patch di un mercato europeo del debito pubblico intrinsecamente instabile. I punti di debolezza fondamentali sono due:

Ogni buffer fund è per definizione limitato dal suo capitale. Non vi sono buffer fund, nella storia dei mercati, che prima o poi la speculazione non abbia sopraffatto. La speculazione ha tempo: per definizione non ha scadenze da rispettare.

Secondariamente, la solvibilità e il merito creditizio degli emittenti sono determinati dai conti pubblici degli Stati Sovrani. Questi ultimi sono in ultima analisi i soli responsabili delle variazioni negative nel merito di credito e nella discesa della domanda delle loro obbligazioni.

 

E’ inefficiente come l’Europa ha deciso di trattare i deficit pubblici

E qui si ritorna al cuore della vicenda, ossia all’approccio europeo ai conti pubblici dell’eurozona.

Si tratta di scegliere le priorità. Le priorità espresse dall’Unione Europea sono rivelate dai contenuti della sua politica. Le priorità rivelate sono:

  • L’integrità del potere di acquisto dell’euro (ragione per la quale la banca centrale non può comprare i titoli del debito dei singoli Stati)
  • Il pareggio di bilancio costituzionale, altrimenti detto “fiscal compact”.

Questa miscela di politiche ha le sue ragioni: in primo luogo, il timore dell’instabilità finanziaria indotta dall’inflazione eccessiva. Il controllo dell’inflazione è di solito il principale obiettivo di ogni banca centrale, e anzi non vi sarebbe bisogno di un banchiere centrale dotato di poteri discrezionali se non si volesse controllare il tasso di inflazione. Il banchiere centrale potrebbe essere sostituito da una regola algoritmica, o la moneta essere del tutto privatizzata, ossia si potrebbero lasciare liberi gli agenti economici di scegliersi la propria moneta. Il Bitcoin (nei riguardi del quale sono state compiute nel 2013 il 20 per cento delle transazioni in cambi dello yuan) non ha alcun banchiere centrale.

Per quanto il controllo verso l’alto del tasso di inflazione sia un obiettivo politico desiderabile (perché l’inflazione è una tassa ingiusta e regressiva), stupisce il fatto che i banchieri centrali, e in particolare il banchiere europeo non debba essere invece responsabile del controllo del tasso di inflazione verso il basso, ossia nel caso di deflazione. Una ragione ci sarebbe: per controllare il tasso di inflazione eccessivo basta ridurre la quantità di moneta e comprimere la domanda di beni alzando i tassi di interesse, all’opposto la deflazione è per sua natura difficile da spezzare. Se si può ridurre il credito a un debitore, non si può costringere alcuno a indebitarsi per spendere, se non vuole.

Il pareggio di bilancio costituzionale, in breve “fiscal compact” stabilizza i debiti pubblici al prezzo di sopprimere le politiche fiscali nazionali; in altri termini, si butta via il bambino insieme all’acqua sporca. Sia bene inteso, gli Stati europei saranno liberi di decidere la quantità di spesa pubbliche e di tasse, purché bilancino, ossia saranno liberi di scegliere il terreno del campo da gioco da lasciare ai privati e da trattenere per sé, ma non potranno usare per ragioni macroeconomiche il saldo (deficit) del bilancio pubblico.

Si tratta dello stesso statuto fiscale cui sono soggetti i 52 Stati Uniti d’America. Ogni Stato membro dello Stato federale non può indebitarsi, se non per fare investimenti e a fronte di piani di rientro. Se non rientra, fallisce. Il bilancio delle spese correnti deve quindi essere sempre in pareggio. Tuttavia, il governo federale dispone di un budget del 20,5% del Pil, che può gestire in surplus come in deficit, eventualmente indebitandosi. In altri termini, le politiche macroeconomiche basate sul bilancio pubblico sono inibite ai singoli Stati (come sarà in Europa), ma sono consentite, sia pure all’interno di regole che pongono dei controlli al ceiling sul debito pubblico, al governo federale. Il governo dell’Unione europea, invece, dopo aver soppresso le politiche fiscali degli Stati non avrà alcun potere in più, in quanto il suo budget, pari all’1,05-1,10 per cento del Pil dell’Unione deve pareggiare.

A indebitarsi per investire può essere la Bei, che ha attivi sopra i 500 miliardi con una leva compresa tra 4 e 5. Tenuto conto della durata dei prestiti, l’impatto espansivo della raccolta e dell’investimento netto della Bei sulla domanda europea è di circa lo 0,4 per cento per anno, nella migliore delle ipotesi. Troppo esiguo, inoltre, troppo rigido per essere manovrato in chiave anticiclica.

 

L’austerità che non produce stabilità

Veniamo ora a un punto cruciale della questione? Come impatta questo impianto di regole austere sulla stabilità finanziaria dell’eurozona? Si direbbe “bene”, invece bisogna fare i conti e vedere i numeri. Anche perché il periodo tra il 2008 e il 2014, con la crisi in mezzo, è un eccellente aiuto per cercare di capire.

Ho costruito nella figura 2 (just click on the picture to enlarge) quattro grafici di variazioni cumulate (tutte percentuali del pil) tra il 2008 e il 2014 (Q2) relativamente a cinque paesi: Germania, Francia, Spagna, Italia e Grecia.

Figura 2 - Austerità e PIL, una relazione controversa
Figura 2 – Austerità e PIL, una relazione controversa

Come si vede dal primo chart della figura 2 (in alto a sinistra), due paesi hanno affrontato la crisi con politiche di restrizione fiscale reali, ossia la Germania e l’Italia, le quali hanno in 6 anni accumulato ben 8 punti di surplus primario (in termini di Pil), ossia di avanzi di bilancio prima degli interessi. In altri termini, hanno prelevato (per ridurre o servire il debito) dalle tasche dei cittadini più del valore dei servizi che hanno restituito.

Per contro la Francia (-16%), il Portogallo (-18%) la Spagna (-35%) e la Grecia (-36%) hanno avuto e continuano ad avere politiche di bilancio del tutto espansive. E questo è sorprendente, perché due paesi su questi quattro (Portogallo e Grecia) hanno beneficiato (o meglio, hanno usufruito) dei piani di assistenza della Troika, che hanno agito sulla spesa pubblica tagliando spese, occupati e stipendi. La troika non è arrivata in Spagna, ma anche la Spagna ha usato le cesoie, perché ha tagliato, secondo fonti governative, ben 375 mila posti di lavoro pubblici tra il 2011 e il 2013. Eppure, a vedere l’andamento dei saldi primari dello Stato, non si vede traccia di questo.

Il punto è che i conti primari (prima degli interessi) non sono andati bene, perché i tagli si sono mangiati più che proporzionalmente il loro denominatore, ossia il Pil. Figurarsi pertanto se possono essere andati bene i conti nel complesso. La seconda figura, in alto a destra, evidenzia il surplus/deficit complessivo cumulato in % del Pil. Come si vede, nonostante la sua virtù sui saldi primari, e nonostante sia la campionessa d’Europa della crescita, neppure la Germania riesce a controllare il deficit (debito) complessivo (-7,8%; il segno meno significa un aumento del debito di pari misura).

L’Italia scivola di 24 punti (sono i punti di Pil di aumento del debito), nonostante i ben otto punti di sacrifici chiesti ai contribuenti italiani. La Francia slitta ben di più (-34%) e slitta insieme alla pattuglia di paesi mediterranei (con percentuali dal -41% al -70%) sottoposte a cure di austerità più severe ancora.

Questa figura è da tenere presente perché evidenzia come tra il 2012 e il 2014, a guardare bene i numeri, non è migliorata la solvibilità di nessuno degli Stati e dei debiti sovrani europei. Quindi il calo degli spread e dei tassi sono il frutto della abbondanza di liquidità e delle aspettative che, una volta fatti i tagli, la crescita sarebbe ripresa vigorosa e si sarebbe assorbito il debito pregresso. Ma se la crescita non arriva?

 

Gli impatti sulla crescita e sulla crescita delusa

Infatti, eccoci alla figura in basso a sinistra, ossia al terzo chart della figura 2. Il terzo chart mostra la crescita (decrescita) cumulata del Pil tra il 2008 e il 2014 (Q2) e, come si vede, non lascia proprio dubbi. La crescita non arriva.

A parte l’eccezione della Germania, che in sei anni si trova 3 punti sopra i livelli del 2008, ossia è cresciuta mediamente dello 0,4 per cento per anno (non è molto, in effetti), e a parte il caso della Francia, che ha collezionato un +1 per cento (in 6 anni) grazie a un deficit primario cumulato del 17 per cento del Pil, tutti i paesi europei hanno un Pil ben sotto quello del 2008. L’Italia ha perso complessivamente il 9,3 per cento (pari al Pil del Piemonte e della Liguria insieme), La Spagna ha perso il 6,4 per cento, il Portogallo il 7,5 per cento e la Grecia il 20 per cento.

Perché un risultato tanto negativo?

 

Il moltiplicatore fiscale in recessione è più alto che in espansione

Sono gli stessi dirigenti del FMI ad ammetterlo. E’ colpa del moltiplicatore fiscale del Pil. Le stime dei loro modelli dicevano che era molto basso, ossia più vicino a zero che a uno. Quindi, tagliare la spesa pubblica o aumentare le tasse equivaleva a tagliare meno che proporzialmente il Pil. Per contro, le stesse risorse tagliate, spese dal settore privato, avrebbero avuto un moltiplicatore maggiore di 1, et voilà ecco servito l’equilibrio di bilancio pubblico, la stabilizzazione del debito in rapporto al Pil in un contesto di piccola recessione e ripresa veloce, a V. Niente affatto, secondo i calcoli fatti ex post il moltiplicatore fiscale, ossia quello della spesa pubblica, è vicino a zero quando l’economia è in espansione, ma è vicino a 2 quanto l’economia è in recessione o stagnazione. Perché? Perché quando il Governo aumenta le tasse e taglia le spese incide sulla propensione a investire delle imprese, che scende perché gli si prospetta un mercato in riduzione e incide sulla propensione a risparmiare delle famiglie, che sale perché aumenta l’incertezza sul futuro. Così, se in recessione si aumentano le imposte di un punto di Pil, il Pil scende di un punto e mezzo o anche due. Se, come in Italia, la pressione fiscale sale dal 50 al 54 per cento, il Pil non scende di due punti (la metà), ma di otto (il doppio) e finalmente i conti tornano.

Non si può mai tagliare la spesa pubblica allora? Sì che si può, ma lo si deve fare quando l’economia è in espansione, a prezzo di raffreddare un po’ la crescita. Non quando l’economia è in recessione, raddoppiando la medesima. Se ci pensate, è quello che hanno fatto gli Stati Uniti. Hanno aumentato la spesa pubblica e non le tasse in recessione (insieme a una politica monetaria espansiva che ha schiacciato i tassi di interesse), per poi incominciare a mettere sotto controllo il deficit, quindi la spesa, quanto l’economia è tornata in espansione.

 

L’Italia ha pagato il conto più salato agli errori dell’FMI

Chi ha pagato il conto più salato al modello europeo di politica economica? L’Italia. Ho provato (e siamo al quarto chart della figura 2, in basso a destra) a ricalcolare la cumulata del Pil azzerando i surplus di bilancio primario (potete pensare che io abbia ridotto le tasse, per esempio, del surplus primario, ogni volta che c’era). Se ci fossimo comportati così, ossia se avessimo rinunciato non tanto all’austerità, ma al suo eccesso, l’Italia avrebbe più o meno lo stesso Pil del 2008, ossia avremmo patito la crisi e l’avremmo recuperata. Non avremmo perso, per esempio, alcuna posizione verso la Francia. La situazione degli altri paesi mediterranei non sarebbe mutata di molto, essendo che non avevano surplus primari da rimettere ai contribuenti.

Queste simulazione, peraltro, sono simulazioni di “statica comparata”, ossia non considerano l’effetto incrociato che avrebbe avuto sui paesi più in crisi una crescita maggiore del previsto in Italia e Germania. E’ probabile che ne avrebbero beneficiato anche loro.

 

La crisi nell’eurozona può ritornare

Torniamo alla domanda che ha suscitato la simulazione: lo statuto monetario e fiscale dell’Unione europea è corretto? Produce gli effetti sperati? Ossia produce la stabilità finanziaria dell’eurozona, al cui fine è stato scritto? Contrariamente alle aspettative, la risposta è negativa.

In altri termini, la crisi del 2011-2012 è stata la prima crisi seria dell’eurozona, ma a condizioni invariate non sarà l’ultima, nonostante l’ESM e l’Unione bancaria. Inoltre, quando i mercati sono in fibrillazione sull’equity, le ripercussioni sui debiti sovrani europei sono inevitabili.

 

Le opzioni contro la crisi

Non voglio concludere senza approcciare il tema delle vie di uscita, ossia delle opzioni possibili. Essenzialmente, e senza volutamente concentrarmi sul breve periodo, ma sugli esiti di medio e lungo termine le opzioni sono tre:

  1. Il Sud Europa fa i compiti, ma le tasse in crescita non stimolano l’attività economica, mentre le spese che si riducono contraggono la domanda e la stagnazione persiste e si avvita. Con il fiscal compact, la deflazione si impadronisce del mercato del lavoro. I bilanci pubblici non migliorano e ritorna la crisi finanziaria sugli strumenti del debito pubblico, ma questa volta la crisi include anche il mercato dell’OAT. L’ESM non può investire a sufficienza. L’euro va verso il break up. (eventuali episodi di instabilità sociale possono accompagnarlo).
  2. Il Sud Europa fa i compiti, ma le tasse in crescita non stimolano l’attività economica. I mercati del debito prima o poi fibrillano e per eliminare il problema alla radice, atteso che le politiche di convergenza non funzionano, i paesi europei rinunciano alla sovranità fiscale. Si costituiscono gli Stati Uniti d’Europa, dotati di un bilancio pubblico che può essere manovrato, ed eventualmente finanziato dalla Bce. Si crea anche un’agenzia unica del debito europeo, la cui proporzione complessiva rispetto al Pil ritorna maneggiabile.
  3. Il Sud Europa fa i compiti, ma le tasse in crescita non stimolano l’attività economica: ritorna la crisi sul debito, che include la Francia. Di fronte al rischio di un break-up, si crea un’agenzia unica del debito, che viene mutualizzato e reciprocamente garantito. La proporzione del debito rispetto al Pil ritorna maneggiabile, ma la sua nuova formazione richiede o la cessione di sovranità (si ritorna al punto precedente) o politiche serie di redistribuzione della domanda europea. Si crea una assicurazione europea sulla disoccupazione, inoltre, i paesi in forte eccesso di bilancia commerciale accettano di investire una quota dei loro surplus nei paesi del sud Europa. Anziché attrarre ingegneri spagnoli e italiani a Monaco di Baviera, le fabbriche tedesche rilocalizzano in sud Europa.

 

Per evitare il peggio, i politici europei dovrebbero già lavorare a queste opzioni.

Quali sono le lezioni che si possono trarre da questa analisi? Essenzialmente le seguenti:

  • L’Europa non può eludere il problema del suo mezzogiorno, ossia se non si risolve la recessione o stagnazione nel sud Europa è impossibile stabilizzare l’euro e il mercato delle sue obbligazioni;
  • Il break-up non è un’opzione politica (in questo Draghi ha ragione, l’Euro non è reversibile, ossia non si sceglie di tornare indietro), ma è purtroppo un esito potenziale di politiche omesse o sbagliate;
  • Il Policy mix europeo è incompleto e inefficiente e rischia di perpetuare una situazione di crescita inferiore alla media OCSE con crescita delle differenze regionali interne all’UE;
  • La mutualizzazione del debito è inevitabile, prima o poi, se non si vuole correre il rischio del break up. Rifiutarla preconcettualmente è un grave errore.
  • La mutualizzazione senza sovranità fiscale unificata e accentrata o regole di redistribuzione della domanda di consumi e di investimenti può essere inutile, ossia semplicemente ritardare il momento della crisi. Per questo politici europei lungimiranti dovrebbero lavorare a queste ipotesi fin d’ora, per non essere spinti dagli eventi a farlo. O essere tanto in ritardo da non poter più far nulla.

 

 

 


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